…Sull’orlo del fallimento
RAB - 11-06-2003

Debiti per 4 mila miliardi. Così la Fininvest ha rischiato il naufragio. Poi, la quotazione in Borsa. Ovvero: come diventare ricchi con i «comunisti» al governo.

di Bancomat



Era una domenica buia e tempestosa, la prima dell’ottobre 1993, quando ad Arcore Silvio Berlusconi convocò per cena i suoi colonnelli. Da Adriano Galliani a Fedele Confalonieri, da Giancarlo Foscale a Marcello Dell’Utri. La notizia era ferale «Franco Tatò è da domani il nuovo amministratore delegato della Fininvest». Gelo. Ma così parlò Berlusconi quella sera, quando la sua discesa nel campo della politica era ormai decisa e non poteva prescindere da una svolta nella guida della Fininvest. La scelta di Tatò, che dal 1991 guidava la Mondadori, ma che era visto come il fumo negli occhi sia da Dell’Utri, sia da Foscale, aveva un ben preciso significato: era il commissariamento della Fininvest, imposto dalle banche creditrici del gruppo. Perché? Semplice: perché il Biscione era letteralmente sull’orlo del fallimento.



Il bilancio consolidato di quell’anno stava per chiudersi con un fatturato di 11.550 miliardi, ma i debiti avevano raggiunto il livello di 4 mila miliardi. Per dare un’idea di cosa significava quel numero, in un momento in cui i tassi d’interesse applicati dalle banche erano tre volte quelli odierni, si può fare un parallelo con quanto oggi Berlusconi ripete sempre cavalcando il suo principale spot elettorale, quello della riduzione delle tasse. Con i governi dell’Ulivo, dice Silvio, voi italiani lavorate per più di 6 mesi l’anno solo per pagare le tasse, mentre solo da luglio in avanti cominciate a guadagnare davvero. Ebbene, nel 1992 Berlusconi aveva lavorato per le banche per tutti i 12 mesi dell’anno, visto che gli oneri del suo debito (556 miliardi) superavano addirittura l’utile operativo del gruppo, che era di 500 miliardi. Il bilancio si era chiuso con un risicato utile netto di 20 miliardi (0,17 per cento dei ricavi) solo grazie a qualche (peraltro legittimo) artificio contabile. In quegli anni la situazione era talmente drammatica che il gruppo andava avanti grazie al lavoro della Istifi, una sorta di banca interna alla Fininvest, che utilizzava la cassa generata day by day dalla Standa per pagare le spese (compresi gli stipendi dei 30 mila dipendenti) di tutto l’impero. Un giro che era possibile anche perché la Standa non pagava i fornitori. O meglio, li pagava con 9-12 mesi di mora. Solo così riusciva a generare il cash necessario per attivare il circolo virtuoso.Ed era questo il principale motivo per cui Berlusconi aveva strapagato la casa degli italiani acquistandola dalla Montedison qualche anno prima e se la teneva nonostante i bilanci in profondo rosso che andavano ad appesantire l’indebitamento di gruppo.

In quel momento una bella parte della Fininvest era di fatto ipotecata a favore delle banche, a cui erano stati dati in pegno i pacchetti di controllo della Standa (54 per cento) e della Sbe (Silvio Berlusconi editore), che controllava la quasi totalità della Mondadori. I nomi dei gruppi bancari più esposti con Berlusconi sono quelli di Cariplo, Comit, Banca di Roma, Bnl, Montepaschi. Sono loro a chiedere a Tatò di fare qualcosa e di farlo subito. E Kaiser Franz esegue: nel giro di un anno, il 1994, colloca in Borsa la Mondadori, incassa 800 miliardi, e avvia il processo di quotazione della Mediolanum, il gruppo finanziario guidato da Ennio Doris, ma controllato, allora come oggi, da un patto di sindacato paritetico con Fininvest, che frutterà altri 700 miliardi. In entrambi i casi Tatò riesce ad andare fino infondo perché coinvolge nelle due operazioni Mediobanca. Senza Cuccia, che non ha mai amato Berlusconi, non sarebbe stato facile fare quei due collocamenti chesi sarebbero poi rivelati decisivi per dare ossigeno al Biscione. E senza il trait d’union di Tatò Mediobanca non sarebbe mai arrivata ad aiutare Fininvest.

Il lavoro di Tatò si svolge in parallelo su tutto il fronte dei costi del gruppo, che vengono tagliati, ridotti, eliminati, non senza suscitare clamore e malumore in tutta una fascia di dirigenti che fino ad allora erano stati abituati a spendere e spandere perché l’importante era una cosa sola :crescere. In questo contesto Tatò si prepara a vendere anche la Standa, alla Rinascente.
L’operazione era già praticamente conclusa, quando per bloccarla si muove Berlusconi in persona, che non vuole rinunciare alla cassa e a 3mila miliardi di fatturato. E' il segno della rottura, che avviene nel1995, quando Tatò lascia la Fininvest per tornare in Mondadori (da cui se ne andrà un paio d’anni dopo), e al timone del gruppo sale Ubaldo Livolsi, l’uomo chiave nell’operazione finale del salvataggio di Berlusconi: la nascita e la quotazione in Borsa di Mediaset.

Livolsi lavorava nel gruppo già dal 1991, nella direzione finanziaria di cui era diventato il numero uno. Per 3-4 anni il suo compito, nell’ombra, è stato quello di risistemare i bilanci del gruppo per preparare l’«operazione wave», come era stato battezzato lo sbarco in Borsa. Aveva acquisito la stima del sistema bancario e la fiducia totale di Berlusconi, anche perché, avendo a che fare con i bilanci del gruppo, si era trovato a trattare inprima persona anche lo scottante caso All Iberian (la finanziaria«riservata», all’estero, del gruppo), per il quale ricevette un rinvio a giudizio proprio alla vigilia della quotazione in Borsa di Mediaset.
Il lavoro di Livolsi era semplice: mettere in una nuova società, con un nome diverso da Fininvest, sia le televisioni (Rti) sia la pubblicità (Publitalia). Poi, per questa sorta di Fininvest 2, ribattezzata Mediaset e dotata di biscione d’ordinanza, bisognava trovare un gruppo di investitori disponibile ad acquistare il 10-20 per cento. Un’altra quota analoga sarebbe poi stata collocata in Borsa. Risultato finale: raccogliere quei 3 mila miliardi che sarebbero serviti per azzerare sia il debito ereditato da Mediaset, sia il residuo rimasto in Fininvest. Il tutto, mentre Berlusconi, dopo il ribaltone della fine del 1994, era in lizza per tornare a Palazzo Chigi.

L’operazione riesce e va detto che, in effetti, il materiale non mancava perché tre concessioni tivù e la loro concessionaria di pubblicità avevano un preciso valore di mercato: almeno 5 mila miliardi. Livolsi comincia con il mettere insieme alcuni investitori stranieri, e nel luglio del 1995, vara un aumento di capitale di Mediaset di 1.200 miliardi che viene sottoscritto da un vecchio amico di Berlusconi come Leo Kirch, da un magnate australiano dei media relativamente sconosciuto come Joahnn Rupert, e in piccola parte dal principe Al Waleed. Successivamente, sottoscrivono quote minori anche vari investitori istituzionali esteri, tra cui la Morgan Stanley guidata da Claudio Sposito, attuale numero uno di Fininvest. In dicembre entrano finalmente le banche italiane. Le vecchie creditrici del Biscione rilevano il 5,2 per cento di Mediaset direttamente dalla Fininvest. Sono Imi, Montepaschi, Sanpaolo, Comit, Cariplo e Banca Roma. E' un passaggio fondamentale perché rappresenta il nocciolo duro del consorzio che, di lì a sei mesi, garantirà a Mediaset il collocamento in Borsa. In particolare, risulta decisivo il ruolo dell’Imi di Luigi Arcuti,che guiderà la quotazione in Borsa, e che nell’operazione si assume, in qualche modo, la posizione di garante di Berlusconi nei confronti del mercato. Anche la Bnl di Mario Sarcinelli svolge un ruolo importante perché entra in Mediaset in un secondo momento, in tandem con British Telecom che era destinata a diventare il partner strategico di telecomunicazioni del gruppo (una scelta che poi si rivelerà errata).

A tutti questi soci della prima ora Livolsi offre un’opportunità decisiva per capire il senso dell’operazione: comprate oggi, per rivendere domani, se volete. Infatti ai soci viene proposto di offrire al mercato parte delle azioni sottoscritte nel momento del collocamento in Borsa. Ma anche di acquistarle sul mercato a prezzi prefissati: ai grandi soci vengono infatti riservate alcune opzioni per il futuro. In tutto, tra Mediaset e Fininvest, vengono raccolti 2 mila miliardi. Poi, a luglio 1996, scatta l’operazione Borsa, con un collocamento da altri 2 mila miliardi, in parte attraverso un aumento di capitale di Mediaset, in parte con la vendita di azioni realizzata da Fininvest e dai nuovi soci. Il risultato è un successo: l’offerta (a 7 mila lire per azione) va esaurita il primo giorno. Per Berlusconi è un bel risultato, visto che è riuscito a salvare il gruppo, a incassare 4 mila miliardi e, nello stesso tempo, a mantenere il controllo di Mediaset, che dopo l’«operazione wave» rimane comunque controllata dalla Fininvest al 49 per cento. Gli altri soci, nel tempo,riduranno tutti la loro partecipazione. Al punto che oggi, dietro a Fininvest (che ha il 48, 3 per cento di Mediaset), dei grandi soci della prima ora sono rimasti solo Bt, con il 2,1per cento, e Al Waleed, con il 2,3 per cento.

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